La vita è il mio viaggio. L'amore ne è meta, bagaglio, percorso.



PoesieRacconti

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giovedì 18 marzo 2010

Primo posto nel 2° contest de "La trinità"!


WOW, che bellissima emozione!!
Oggi ho saputo di essere la vincitrice del 2° contest "La Trinità", organizzato dal forum di Scrittori d'Italia http://scrittoriditalia.forumfree.it/ scaduto ieri pomeriggio.
Questo significa che:
- il mio "La metà di credere" sarà posizionato in cima alla TagBoard del forum;
- cliccando sulla copertina del libro ci sarà il link diretto ad IBS.it o a una mia pagina personale (questo blog, suppongo);
- sarò recensita dal sito http://www.fragmenta.it/ (sito enciclopedico di libri, film e canzoni);
- fino al termine del prossimo contest de "La Trinità" avrò uno spazio laterale nel blog Imho Blurp!;
- entrerò a far parte del gruppo "And the winner is..."
E tutto questo non è poco, perciò...
UN GRAZIE, DAL CUORE, A TUTTI QUELLI CHE MI HANNO VOTATA!
E ora, per voi che vi siete imbattuti in questo mio piccolo spazio nella rete, mi sembra doveroso riportare l'estratto con il quale ho partecipato... un assaggino del mio libro e delle vicende di Perseo. Buona lettura!
...

L’una del pomeriggio.

Non si vede nessuno, a quest’ora.
I bambini riposano, dopo il pranzo; gli insegnanti sono in pausa, gli inservienti a rigovernare.
Solo i miei passi. Che calpestano le fughe, dritte e grigie, distese tra i marmi. I miei passi che rimbalzano, riecheggiano; e scalfiscono, lampi sonori, quest’ombra satura di vernice.
Una fila di finestre, a sinistra; affacciate sul giardino, quello della quiete. Le imposte chiuse, forse per il caldo.
Una fila di porte, a destra: tre aule, la direzione, l’infermeria. E oscurità, che sgattaiola da quelle stanze.
Poi qualche spada di luce, là in fondo; a destra oltre le aule, la direzione, l’infermeria. Che da una porta schiusa si allunga a ferire, silenziosa, la penombra ovattata del corridoio vuoto. La raggiungo.
Quattro gradini a scendere, al giardino dei giochi, e alla luce. Mi fermo sull’uscio, a farmi ancora avvolgere dall’abbraccio piacevole del tunnel semioscuro.
Apro la porta, a metà. È accecante, la calura del giardino.
Mi sporgo un poco, ma cauto; aggrappato alla maniglia, come a un appiglio salvifico sull’orlo di un precipizio.

Niente è cambiato, qui.
Soltanto un po’ più grande, la magnolia. Stesse foglie arrugginite, tirate a lucido; rilucenti, nelle onde timide della canicola. Soltanto un po’ più piccolo, il giardino. Stessi colori, stessi odori, stessi suoni.
...
Un canto in crescendo, un coro. Di bambini. Che cantano e ridono, e saltano; battono le manine. Guariti, forse. Che bello.

Non ci sono.
... ma io li sento...
Ora riposano, i bambini.

Non ci sono, a quest’ora.
... ma io li vedo...
Non qui in giardino.

Eccoli.
Tutti in cerchio, una bimba in centro. Con la benda sugli occhi, annodata dietro, tra i suoi codini color rame. Tutte in cerchio, piccole testoline; una su e una giù, come merletti sulla torre di un castello. Tutti uguali, soldatini e bamboline; divisa blu. Camicia bianca e calzoncini, gonna le bambine. Una testa su una testa giù, una bionda una castana. Quella in centro, rossa. Si tengono per mano e girano, girano in tondo; girano e cantano. La bambina immobile, al centro. Le braccia lungo i fianchi, un po’ sollevate, come un cavatappi avvitato a metà nel sughero di una bottiglia di spumante.

Non ci sono.
Ma li sento, li vedo.
Forse è il caldo.
Che inganna occhi, orecchi e mente. Che svuota i polmoni, sanguigni. Che fa sudare la memoria, sanguinante.
Che mi divora l’aria, non respiro.

C’è un bambino in disparte, accanto alla magnolia
. Accovacciato. Sta guardando qualcosa, lì in terra.
Si inginocchia, siede sui talloni. Con le mani, esplora tra le zolle.
Abbandono il mio appiglio, sulla porta. Anche se non respiro, e la mia testa gira, e l’aria ondeggia. Trasparente, nella canicola.
Fitta alla gamba, la destra. Quel dolore, il solito.

Scendo cauto, i quattro gradini. Niente più ombra; ormai sono nell’afa, accecante, del giardino.
Cammino veloce verso il bambin
o, mi chino.
Cosa sta facendo.
Davanti a lui un minuscolo vulcano di terra smossa, una fila sbisciolante di operose formichine; e un mucchietto di semi, lì vicino.
Ecco cosa fa, aiuta le formich
e.
Vorrei parlargli, dirgli che anch’io facevo quel gioco, da bambino. Che con Priscilla le aiutavo sempre, le formichine; ammonticchiando semi accanto al formicaio.
Ma lui non si volta, continua il suo lavoro come non ci fossi. Ed io non oso disturbarlo, e non so come chiamarlo.
Come si chiama.
Lui non mi guarda, o non mi vede.

...
Sento uno sguardo e sollevo la schiena, mi guardo intorno.
Niente più coro, niente più bambini in tondo, niente bambina in centro.

Solo una bambola. A terra, seduta. Sorretta sulla schiena dal tronco scuro della magnolia.
Una bambola bionda di porcellana, con grandi occhi verdi di vetro e una palpebra abbassata a metà; un bel vestitino a fiori, le scarpine lucide, il cappellino con la tesa orlata di pizzo.
«Signore... signore!» una voce di donna, strillante, dall’orlo del precipizio. Mi volto.
Viene verso di me, con piglio deciso e l’aria seccata. I pugni serrati, minacciosa.
«Cosa sta cercando, qui?»
Stendo il braccio, il destro. In direzione della magnolia.
«... il bambino... » sussurro, a fatica.
«Quale bambino?»
Mi volto, con gli occhi cerco il bambino delle formiche. Niente.
Abbasso lo sguardo, cerco il formicaio e la fila di formiche. Niente.
Alzo lo sguardo, verso la bambola. Mi sorride.

Mi volto verso la donna.
È più alta di me, più giovane, aggraziata. Ma sembra irritata.
«Quale bambino, scusi... chi sta cercando? Non è orario di visita, chi l’ha fatta entrare?»
«Quel ciccione sudaticcio, ottuso e beota di portiere in letargo... con quell’idiota di guardiano imbambolato... » vorrei rispondere.
«... sono entrato... la portineria... » biascico invece, a denti stretti. E le porgo con diligenza il cartellino plastificato con la scritta “visitatore”, che ho messo in tasca prima di entrare.
Lei lo guarda. Poi mi guarda, lasciando fiorire un mezzo sorriso sulle sue labbra graziose.
Sembra più distesa, sembra aver capito.
«Non è orario di visita, adesso; deve aspettare le sedici, purtroppo... venga dentro, qua fa caldo...» si volta e procede, a passo svelto, verso i gradini.
Io invece resto lì, accanto alla magnolia.
Non riesco a muovermi, non respiro. Resto lì paralizzato, all’ombra dell’albero. Senza il bambino, senza i bambini.
Ma dove sono.
Li cerco ancora, con lo sguardo, ma niente.
Mi volto, è sparita anche la bambola.
E ormai non c’è più aria,
continuo a non respirare.
La donna intanto ha salito i gradini e mi guarda, con la mano appoggiata alla porta. Mi fa cenno di raggiungerla.
Provo a respirare e ce la faccio, mi muovo, cammino verso di lei. Come picchia, questo sole. Almeno venti passi, ai gradini. Come vent’anni, per me. Ma ce la faccio, la raggiungo.
«Si sente bene?»
Tento di sorridere. Annuisco.
Chiude la porta, alle nostre spalle.
Buio.
Allunga una mano.
Luce.
Cammina veloce verso la parete opposta. Si appoggia al davanzale, sporgendosi un poco. Apre leggermente una delle imposte, verso il giardino della quiete.
Viene verso di me, quasi mi sfiora. Spegne la luce.
Penombra.
«Chi è venuto a trovare?»
Bella domanda, non ho una risposta.
Si aspetta un nome, il nome di un bambino. Invece no, non cerco un bambino. Cerco Priscilla, che è scomparsa e certamente non è qua. Non può essere qua, lo so. Non sono preparato, a questa domanda, non so che dire. Ma cosa pensavo, venendo qua. Cosa speravo mi dicessero. Devo pur chiedere, qualcosa. Devo sapere.
Intanto la donna aspetta, e mi guarda.
Silenzio.
«Allora... chi cerca? » sembra nuovamente spazientita.
«Cercavo... cerco Priscilla, l’insegnante... »
Ecco, l’ho detto. Adesso sentiamo, cosa risponde. Sentiamo qual è, la scusa ufficiale.
«Priscilla... » ripete.
«Priscilla.»
Ecco, io l’ho detto. E ora mi dirà «…ma come, non ha saputo... l’incidente... »; oppure «... si è trasferita, non so dove lavori, adesso...»
La guardo, così graziosa e gentile. Mentre lei, gli occhi bassi, rovista con la solita grinta nei cassetti della sua mente.
«Priscilla... e di cognome?»
«... dell’Olmo... Lavo... lavora qua... »
Ecco, giusto “lavora”, non... “lavorava”. Non devo saperlo, che non è qua. Altrimenti perché, dovrei cercarla. Sì... “lavora” e non...“lavorava”.
«Dev’esserci un errore, sa? Questa signora... Priscilla... non lavora con noi.»
«Ma certo, insegna in questo Istituto... » insisto.
Devo insistere. Devo sembrare convinto.
«Le ripeto di no, signore. La sua amica non lavora, qua con noi» e si volta, seccata.
Si dirige a passi svelti verso la scrivania, in fondo al corridoio. Io la seguo, devo insistere.
«... ma sono già venuto, a trovarla... » la mia voce però non è ferma come vorrei, e sento quella fitta al ginocchio, il destro, e respiro a fatica.
«Non ha mai lavorato in questa Scuola, signore... » mentre finge di riordinare la scrivania, incurante del mio ansimare.
«... almeno, non negli ultimi dodici anni... io lavoro qua da dodici anni... lei quando è venuto, l’altra volta ?»
Quando? Non lo so, quando...
«L’anno scorso... in primavera...» ma la mia voce vacilla, ed io ancora non respiro, e mi affanno.
«Per favore... non ho tempo da perdere... » ora è proprio irritata. Mi indica l’uscita, con un cenno della mano.
«... non so perché lei sia qui, ma questa storia non mi piace. La prego di andarsene. Subito.»
«Le dico che lavora... posso parlare con il Direttore?»
«Il Direttore non è in sede, oggi. Deve chiamare dopo ferragosto... » e il suo tono è severo, adesso.
Si china sulla scrivania e scrive un nome, a matita; su un biglietto da visita con l’indirizzo della scuola. Me lo porge.
«... chiami questo numero, e chieda un appuntamento. E ora vada, per favore... non mi costringa a chiamare la sicurezza.»
«Quale sicurezza, cara? Ti riferisci a quel bell’imbusto con la divisa impeccabile e la testolina bacata di un tacchino imbalsamato? O a quel grassone del suo amico, salciccioso e unto, che si rotola nel sonno russando come un trombone?» vorrei risponderle.
«... mi scusi tanto, del disturbo. Chiamerò dopo ferragosto... senz’altro... » le rispondo, invece.
Poi mi volto, sconfitto. E mi affretto verso l’uscita. Un po’ zoppicando, e respirando a fatica.
Chiudo gli occhi, vorrei scappare, vorrei sparire.
Ho fatto la figura del cretino, o del pazzo, o anche peggio.
Mi fermo davanti alla porta, prima di uscire.
Mi volto e la guardo, sforzandomi di sorridere. Nonostante la figuraccia, e nonostante la sconfitta.
Vorrei sembrarle gentile.
«... mi scusi... »

1 commento:

  1. Congratulazioni. Posso capire perfettamente la tua gioia. Inoltre, devo dire che quello che hai scritto è molto. E' bello vedere che c'è tanta voglia di scrivere, tanti che condividono questa passione. A tal proposito, ti rimando, quando hai tempo alle mie "parole" su http://memoriediunafashionvictim.blogspot.com
    anche se i miei libri ruotano tutti intorno ad un solo tema...

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