La vita è il mio viaggio. L'amore ne è meta, bagaglio, percorso.



PoesieRacconti

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martedì 25 maggio 2010

Invito su www.pensorosa.it

La rubrica "Nuove Voci Letterarie" del sito
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ospita da ieri il mio
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"La metà di credere"
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(recensione e intervista a cura di Flavia Pellegrino)


Ringrazio Flavia Pellegrino per lo spazio che ha voluto concedermi; oltre che, ovviamente, per tutte le belle parole spese in favore del libro!

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lunedì 24 maggio 2010

LA VITA NON E' IN ORDINE ALFABETICO, di Antonio Tabucchi

La vita non è in ordine alfabetico come credete voi.
Appare... un po' qua e un po' là, come meglio crede, sono briciole, il problema è raccoglierle dopo, è un mucchietto di sabbia, e qual è il granello che sostiene l'altro?
A volte quello che sta sul cocuzzolo e sembra sorretto da tutto il mucchietto, è proprio lui che tiene insieme tutti gli altri, perché quel mucchietto non ubbidisce alle leggi della fisica, togli il granello che credevi non sorreggesse niente e crolla tutto, la sabbia scivola, si appiattisce e non ti resta altro che farci ghirigori col dito, degli andirivieni, sentieri che non portano da nessuna parte, e dai e dai, stai lì a tracciare andirivieni, ma dove sarà quel benedetto granello che teneva tutto insieme... e poi un giorno il dito si ferma da sé, non ce la fa più a fare ghirigori, sulla sabbia c'è un tracciato strano, un disegno senza logica e senza costrutto, e ti viene un sospetto, che il senso di tutta quella roba lì erano i ghirigori.
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mercoledì 19 maggio 2010

PER TE, NONNA

Dalla tua stanza ascoltavo
il tocco mesto, lontano
di una lunga eco di campane
Ch'era bella, eppure
io non lo sapevo.

Riempivo il vuoto
l’aria lieve
vibrando sogni ingenui
e fragili
sulla mia noia impazzita

Avevo il tempo allora, e m'illudevo
di non saperlo perdere
lasciandoti aspettare,
a porta chiusa
un gesto una parola
un sorriso.

Ricordo ancora quei giorni
lunghi
i pomeriggi ariosi e lenti a curiosare
di sopra
tra le tue cose

Mentre accudivi amorevole
la tua terrazza odorosa
E avevi un volto, e una voce
che ormai, però
io non ricordo.

Qualche emozione, sbiadita
ecco, quel che mi resta;
perché in due note, sparse al vento
il mio tempo s'è smarrito.

Melodia inutile, forse
la voce piccola e roca
muta nell’etere, troppo denso
che adesso ci separa

Ma anche così, per te
oggi almeno
proverò a cantarla.
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mercoledì 12 maggio 2010

SE TI TAGLIASSERO A PEZZETTI, Fabrizio De André

Genova, 1940 - Milano, 1999

Che Fabrizio De Andrè sia uno dei più grandi poeti dei nostri tempi è, senza ombra di dubbio, opinione largamente condivisa.
Popolare, dovrei dire.
Fatto che, probabilmente, rende il grande FABER un poeta "nobile", davvero meritevole di tutti i riconoscimenti ad oggi ricevuti.
Oltre che (evenienza per nulla scontata, e certamente degna di nota) di un posto di riguardo tra gli affetti, e nella memoria, dei suoi milioni di ammiratori. Di ieri, e di domani.

Fra i suoi tanti capolavori ce n’è uno, in particolare, a me molto caro; compreso in un album del 1981.
Una canzone d’amore triste, delicata, bellissima.
Che poi in realtà non è propriamente una canzone d’amore, ma per certi versi addirittura l’opposto, poiché si tratta piuttosto di un’esaltazione della libertà, di un inno e un’esortazione all’ANARCHIA (tant’è vero che il testo, almeno sua nella versione originale, fu prontamente censurato).
Eppure per molto tempo io, in preda al mio incorreggibile romanticismo, non ho voluto prestare grande attenzione a questo aspetto. E sì che De Andrè è stato molto esplicito, col suo “signora Libertà, signorina Fantasia...” (ex: signorina ANARCHIA)!
Ho preferito continuare a interpretarla, invece, come un ricordo dolce e nostalgico. Di un uomo che ha amato una donna, e sul corpo e nel cuore porta ancora i segni della passione.
Poi un giorno, finalmente... l’illuminazione! (ehm sì, lo so... per certe cose non sono molto perspicace!?)
Se devo essere sincera, però, non mi spiace essere recidiva.
E mi concedo ancora di pensare a questa canzone così, come in fondo non è ma potrebbe anche essere: come a una poesia d’amore e basta.
Per tornare a commuovermi, quando la sento. Sempre, come la prima volta che l’ho ascoltata.
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Alcune cose della vita, che sul momento appaiono poco chiare, si fanno comprendere più tardi. Col senno di poi.
Altre invece, e sono tante, non si possono mai capire fino in fondo.
Ma forse, dopo tutto... stanno bene lì, dove sono.
Nel cassetto dei misteri mai svelati.
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venerdì 7 maggio 2010

CARMELO BENE, di Alessandro Baricco

Carmelo Bene, 1937-2002
attore, drammaturgo e regista italiano

"Carmelo Bene. Me l'ero immaginato definitivamente ingoiato da una vita quotidiana inimmaginabile, e triturata dal suo stesso genio, portato via su galassie tutte sue, a doppiare pianeti che sapeva solo lui. Perduto, insomma. Poi ha iniziato a girare con questo suo spettacolo anomalo, una lettura dei Canti Orfici di Dino Campana. L'ho mancato per un pelo un sacco di volte, e alla fine ci sono riuscito a trovarmi una poltrona, in un teatro, con davanti lui. A Napoli, all'Augusteo. Scena buia, solo un leggio. Lui, lì, con una fascia sulla fronte alla McEnroe, e dei segni di cerone bianco sotto gli occhi. Un microfono davanti alla bocca, e una luce addosso. Cinquanta minuti, non di più. Non so gli altri: ma io me li ricorderò finché campo. Non è che si possa scrivere quel che ho sentito. Né cosa, precisamente, lui faccia con la sua voce e quelle parole non sue. Dire che legge è ridicolo. Lui diventa quelle parole, e quelle non sono più parole, ma voce, e suono che accade diventa Ciò-che-accade, e dunque tutto, e il resto non è più niente. Chiaro come il regolamento del pallone elastico. Riproviamo. Quando sono uscito non avrei saputo dire cosa quei testi dicevano. Il fatto è che nell'istante in cui Carmelo Bene pronuncia un parola, in quell'istante, tu sai cosa vuol dire: un istante dopo non lo sai più. Così il significato del testo è una cosa che percepisci, si, ma nella forma aerea di una sparizione. senti il frullare delle ali, ma l'uccello non lo vedi: volato via. Così, di continuo, ossessivamente, ad ogni parola. E allora non so gli altri, ma io ho capito quel che non avevo mai capito, e cioè che il senso, nella poesia, è un'apparizione che scompare, e che se alla fine tu sai volgere in prosa una poesia allora hai sbagliato tutto, e, a dirla tutta, la poesia esiste solo quando diventa suono, e dunque quando la pronunci a voce alta, perché se la leggi solo con gli occhi non è nulla, è prosa un po' vaga che va a capo prima della fine della riga ed è scritta bene, ma poesia non è, è un'altra cosa. Diceva Valéry che il verso poetico è un'esitazione tra suono e senso: ma era un modo di restare a metà del guado. Se senti Carmelo Bene capisci che il suono non è un'altra cosa dal senso, ma la sua stagione estrema, il suo ultimo pezzo, la sua necessaria eclisse. Ho sempre odiato, istintivamente, le poesie in cui non si capisce niente, neanche di cosa si parla. Adesso so che c'è qualcosa di sensato in quel rifiuto: rifiuta una falsa soluzione. Quel che bisognerebbe saper scrivere sono parole che hanno un senso percepibile fino all'istante in cui le pronunci, e allora diventano suono, e allora, solo allora, il senso sparisce. Edifici abbastanza solidi da stare in piedi, e sufficientemente leggeri da volare via al primo colpo di vento. È meraviglioso come tutto questo non abbia niente a che fare con l'idea che si ha normalmente della poesia: un poeta soffre, esprime il suo dolore in belle parole, io leggo le parole, incontro il suo dolore, lo intreccio col mio, ci godo. Palle: per anime belle. Tu senti Carmelo Bene e il poeta sparisce, non esprime e comunica niente, l'attore sparisce, non esprime e comunica niente: sono sponde di un biliardo in cui va la biglia del linguaggio a tracciare traiettorie che disegnano figure sonore: e quelle figure, sono icone dell'umano. Le poesie non sono delle telefonate: non le si fanno per comunicare. Le poesie dovrebbero esser pietre: il mare o il vento che le hanno disegnate, sono poco più che un'ipotesi. Non spiega quasi nulla, Carmelo bene, durante lo spettacolo. Solo un paio di volte annota qualcosa. E quando lo fa lascia il segno. Dice: leggere è un modo di dimenticare. Testualmente, nel suo linguaggio avvitato sul gusto del paradosso: leggere è una non-forma dell'oblio. Non so gli altri: ma a me m'ha fulminato. L'avevo anche già sentita: ma è lì, che l'ho capita. Scrivere e leggere stretti in un unico gesto di sparizione, di commiato. Allora ho pensato che poi uno nella vita scrive tante cose, e molte sono normali: cioè raccontano o spiegano, e va bene così, è comunque una cosa bella, scrivere. Però sarebbe meraviglioso una volta, almeno una volta, riuscire a scrivere qualcosa, anche una pagina soltanto, che poi qualcuno prende in mano, e a voce alta la pronuncia, e nell'istante in cui la pronuncia, parola per parola, sparisce, parola per parola, sparisce per sempre, sparisce anche l'inchiostro sulla pagina, tutto, e quando quello arriva all'ultima parola sparisce anche quella, e alla fine ti restituisce il foglio e il foglio è bianco, neanche tu ti ricordi bene cosa c'avevi scritto, solo ti rimane come una vaga impressione, un'ombra di ricordo, qualcosa come la sensazione che tu, una volta, ce l'avevi fatta, e avevi scritto una poesia."

testo di Alessandro Baricco
tratto da http://poesieracconti.it/

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martedì 4 maggio 2010

ECO

Ho sentito sorrisi di pietra
sul mio volto di ghiaccio
e ascoltato un dolore impalpabile
crudele
come il sole insanguinato, quando muore
e odia il mondo

Ho respirato nebbia
impenetrabile
appesa nel vuoto, scuro
del tuo silenzio

Ti ho chiamato, hai risposto
ma eri un’eco
gelida
aggrappata al mio corpo, spaurito
e solo.
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