La vita è il mio viaggio. L'amore ne è meta, bagaglio, percorso.



PoesieRacconti

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mercoledì 6 novembre 2013

LA VETRINA DELLO SCRITTORE ESORDIENTE

Oggi voglio segnalarvi una bella iniziativa, presente sul web, che può interessare:
i lettori più attenti ed esigenti, sempre in cerca di qualcosa di nuovo e coinvolgente,
gli scrittori "senza fama", in cerca di uno spazio in grado di aumentare la loro visibilità,
i recensori e i correttori di bozze che vogliano farsi conoscere,
gli editori in cerca di talenti ancora sconosciuti,
i registi teatrali in cerca di nuovi testi da rappresentare,
gli "artisti esordienti" in genere (musicisti, disegnatori, fotografi...), desiderosi di confrontarsi col pubblico e di mettersi alla prova ispirandosi alle opere di altri autori.
Si tratta di un progetto amatoriale senza scopo di lucro, definito dal suo ideatore Corrado Allegro come "Progetto di aggregazione multidisciplinare"...
Io lo trovo molto interessante, e ho deciso di partecipare sia come Autore che come Lettore (e Recensore).
Se siete un po' curiosi, e volete capire meglio di cosa si tratta, cliccate su questo link:


oppure visitate il canale YOUTUBE:

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venerdì 25 ottobre 2013

RAINER MARIA RILKE, da "Poesie sparse"


Accogli ora da qualche ramo un cenno
quasi saluto o convegno novello;
e, come i vasi a cui bevono uccelli,
anche lascia la pioggia in te, che specchi.

Nulla si perde, tutto si tramanda.
Chi nell'intimo suo l'intende sale,
e la vetta lassù della sua scala
appare incline a quanto ha sensi eguali.
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giovedì 4 luglio 2013

L'ultimo viaggio. Storia di una farfalla.


È un pomeriggio cupo, di fine inverno. Sfilacciato da un gelido vento marzolino, qualche viticcio di nebbia si allunga a screziare il cielo plumbeo rigandolo di striature lattescenti.
Sono accanto al finestrino, nel verso contrario al senso di marcia, col dorso appoggiato allo schienale e il capo un po’ reclinato a destra, posizione che mi permette di osservare meglio, e per intero, la linea di confine fino alla curva, dove scompare.
La vedo. È una sottile riga gialla, quasi fluorescente, spicca prepotente sul nero stanco dell’asfalto che disegna la banchina. Non amo guardarla in faccia, la riga gialla; non amo andare a sbatterle contro e lasciare poi che strisci veloce alle mie spalle. Preferisco che sia lei a sorprendermi, che faccia capolino sbucando dal niente e poi si lasci risucchiare dai binari, trascinata all’indietro. Mi piace guardarla che si dipana mentre il treno avanza, per poi annullarsi e sparire sotto i miei stessi occhi; osservarla nel suo progressivo allungarsi e vederla cambiare, nascere e morire. La riga gialla. Quella linea retta, netta e inesorabile, che segna il limite di demarcazione tra chi arriva e chi parte, tra lacrime e sorrisi, tra chi ripiega nella fuga e chi ha il coraggio di restare, tra chi sa attendere paziente e chi non trova mai nessuno ad aspettarlo.
Io sono al di qua di quella riga: amo guardarla correre, iniziare e finire.
Non so bene perché mi piaccia, né so da dove vengo o dove vado. Non so nemmeno se sto arrivando o invece fuggo.
Ecco il fischio del capotreno, e sul suo fischio la rincorsa affannosa dei ritardatari, gli ultimi abbracci frettolosi, lo sbatacchiare scoordinato di chiavi valigie e tacchi, lo scatto metallico dei meccanismi di chiusura delle carrozze, la coda lunga dei baci degli amanti freschi e il via-vai finale dei nuovi avventori; quelli che hanno appena varcato la linea gialla tra mani tese, strette e sospiri di chi invece è rimasto, immobile, di là dal muro invisibile.
Mi piace osservare da qui la vita degli altri: è come il soffio di un vento mite, che mi accarezza piano la fronte e smuove i miei ricordi. In questa brezza, rammento di aver avuto anch’io i miei baci in banchina, quei baci dell’ultimo minuto, quando con un piede sei già sul predellino mentre con l’altro sfiori appena la riga gialla, quel mix perfetto di passione e malinconia che fotografa sempre le partenze.
Quei baci li ho avuti anch’io, e mi hanno fatta sentire grande, bella, importante. Per un attimo.
Lui mi giurava ch’ero il suo cielo, e io ne ero convinta davvero. Quel cielo mi sembrava di toccarlo con un dito ed era un cielo tutto mio e nostro, a portata di mano. Le nuvole erano in alto in alto, lassù, dove in nessun modo avrebbero potuto offuscare il blu limpido delle nostre vite leggere.
Io ero il suo cielo. E perciò, già a quel tempo, qualcosa di etereo e impalpabile, che non si può contenere o trattenere. Forse per questo, allora, non fui capace di evitare di andarmene. E un giorno, non so come, decisi di partire. Lo feci d’impulso, senza pensarci troppo, senza dare la giusta importanza a quell’ultimo bacio zoppo sulla banchina. Un bacio sfortunato, che finsi di cogliere al volo con un piede sul predellino e l’altro sospeso a mezz’aria, e che invece lasciai cadere a terra, sulla riga gialla, distratta com’ero dall’infantile entusiasmo della partenza.
Alzo gli occhi, cerco il cielo. Ma oggi il cielo è salito troppo in alto, e i miei occhi non riescono a raggiungerlo: trovo solo una folla di nuvole basse e smagliate, che si spargono nell’aria sfiorando i tetti sbiaditi di un gruzzolo di vecchi edifici dalle imposte sgangherate. Nuvole grigie che si corrono accanto, ognuna incurante dell’altra e tutte assorte in un viaggio lento, composto, verso chissà quale meta, e in quella marcia avvolte in un saio di quiete triste; una pace quasi irreale, che il sottofondo costante del traffico cittadino non riesce a spezzare e anzi amplifica, quasi cullando quella corsa pacata, ordinata e silenziosa.
Il viaggio sta per iniziare, siamo pronti. Ed ecco si affianca un altro convoglio, un serpentone grigio e blu dagli occhi opachi, assonnati; i freni stridono in modo assordante e, in quello stridio insopportabile, il rettile rallenta, rallenta sempre più ma intanto ci scorre accanto inghiottendo la banchina, le mani gli abbracci i baci e la riga gialla, pochi secondi e ha ingoiato tutto. Eppure posso ancora intravedere, attraverso i finestrini rigati di sporco, due lettere cubitali bianche sullo sfondo cobalto: l’estremità di una scritta breve, incorniciata in un rettangolo allungato di un bel blu brillante bordato di bianco. È il contrassegno della stazione, e io lo inseguo con lo sguardo; non so perché, ma il blu mi rasserena.
Intuisco il treno che avanza adagio, ma all’inizio è solo un sospiro, un movimento muto che forse inganna, guardo fuori e non son certa che a muoverci siamo noi o i vagoni al nostro fianco; allora sto ferma, trattengo il respiro e anche il cuore, per un istante... ecco sì, siamo partiti, alla fine.
Chiudo gli occhi e tento di eclissarmi, non amo questa parte del viaggio.
La marcia è troppo tranquilla, gli occhi spenti dei palazzi troppo vicini, lo sferragliare dei binari troppo forte... C’è sempre qualcuno che insiste nello sporgersi fuori dal finestrino. Potrebbe anche piovere, infuriare una tempesta di vento neve o grandine, non importa, per qualche chilometro dopo la stazione, i finestrini non vogliono proprio saperne di risalire. Poi la galleria. Mi accorgo che il treno è entrato nel tunnel quando le correnti d’aria si fermano, il rumore di ferro si attutisce con una serie di SSSTAAC secchi che si susseguono a ripetizione. A poco a poco, nel buio, prende forma un ronzio intermittente di luci traballanti, un lungo fremito seguito da un CLICK improvviso di luce ferma e da un’immancabile cascata di sguardi invadenti. Me li sento addosso, sento quanto pesano e potrebbero schiacciarmi, allora resto immobile, mi rendo invisibile. Finché il paesaggio si apre, arriva la campagna e il treno corre, avanza più agile e sicuro, questa volta a velocità davvero sostenuta.
A questo punto c’è chi dorme, chi legge un libro e chi scrive al portatile. Qualcuno, a occhi chiusi, tamburella un ginocchio e intanto fa oscillare il mento in mezzo ai fili dell’auricolare, un altro conversa amabilmente col vicino di poltrona e un altro ancora, invece, come me, si sente finalmente libero di piangere in silenzio, non visto, la sua irrimediabile metamorfosi.
Avverto alberi campi e cascine, alla mia destra; tutti che sfilano all’indietro veloci, ché il treno passa e li risucchia. Corre e mi porta avanti e m’imprigiona nel nulla, e io penso che sono invisibile e forse non esisto. All’improvviso mi accorgo che non riesco più a vedere, non scorgo altro che una traccia confusa, colori sbiaditi, alberi campi e cascine che scappano mentre cerco disperatamente di afferrare una forma, un colore deciso e brillante; magari il blu di un cartello che mi dica qualcosa... Ma no, non lo trovo, e non sento più i miei occhi ma so, capisco che stanno tentando invano di piangere, perché non ho più lacrime ma un fluido denso e viscoso, un filo sottile che si allunga imperturbabile; forse esce proprio dagli occhi e mi si attorciglia addosso. Un giro, poi un altro e un altro. Pian piano mi ritrovo tutta avvolta, fasciata come una mummia e, mentre il filo continua ad avvolgermi, tento invano di piangere, vedere, capire.
Ma non vedo e non sento nulla. Non capisco. E nessuno mi vede sente o capisce, di questo sono certa.
Poi un sussulto improvviso e un tonfo, un fischio lungo, uno sbuffo. Ricordo.
Ricordo il giorno che partii, e mi sovviene un cielo immenso di un bell’azzurro limpido, la valigia pesante e il cuore leggero. Rammento l’istante preciso in cui, sulla banchina, varcai il confine segnato dalla riga gialla come in un balzo, senza esitazioni, senza dare alcun peso a quell’ultimo bacio sfortunato, ché non lo sapevo destinato a restare per sempre zoppo.
Ero sicura che avessimo tempo, credevo che a breve sarei ritornata, e il mio amore sarebbe stato in stazione ad attendermi. Così alla fine mi sarei ripresa lui, le mie vecchie abitudini e il mio bacio caduto accanto ai binari. Ma ho dovuto imparare a mie spese che no, il tempo non è mai abbastanza, la vita non ammette repliche e non puoi pensare che il cielo sia alla tua portata: se lo fai sarai costretto a ricrederti. Io lo sto facendo.
Perché all’improvviso, quando meno te lo aspetti, nel tempo invisibile che scorre tra un lampo e il tuono di rimando, il cielo può sfuggirti dalle dita e correre a oscurarsi; con me l’ha fatto. Si è vestito di nero e si è preso la mia esistenza semplice, rubandomi per sempre tutti i miei affetti e restituendomi in cambio, forse a titolo di indennizzo o forse in segno di scherno, queste mie nuove, misere spoglie: tutto quello che sono adesso, come mi sento...
Un minuscolo e inutile esserino bislungo e molle, abbarbicato a un sedile di seconda classe di un vecchio treno malandato che corre, rallenta si ferma e corre.
Ecco, quello che sono. Un piccolo bruco ripugnante, peloso e senza voce, che non sa far altro che starsene in disparte a osservare vorace le vite degli altri, e nel suo stesso silenzio si irrigidisce, sempre più insignificante e minuto, e scompare, a poco a poco, imprigionandosi nel deserto di un involucro troppo stretto, buio, appiccicoso. Un deserto senza l’ombra di un’oasi, dove può solo giacere immobile e muto mentre spera, paziente, l’occasione di una nuova vita. La libertà di un giorno.
Un solo giorno in cui, volendo il cielo, alla crisalide sarà concesso di aprirsi.
Quando il baco si sarà fatto farfalla, e la farfalla sarà abbastanza forte da lottare, e con le sue sole forze riuscirà ad aprire nel bozzolo un piccolo varco per uscirne.
Quando finalmente, nell’incredibile sforzo di attraversare quel foro angusto, il baco, ormai farfalla, sentirà il suo corpo impregnarsi di linfa vitale. Una linfa che le darà l’energia per sfregare le ali, farle asciugare al sole e, infine, spiegarle al vento e volare, volare in alto in alto, in tutto il suo nuovo splendore.
Adesso il treno corre, alberi campi e cascine mi sfilano accanto veloci e io non vedo, non sento, non esisto. Non ancora. Ma aspetto il mio momento.
So che potrò volare ancora, un giorno. So che avrò ali leggere ma forti, impalpabili come l’aria, incredibilmente grandi. Saranno blu, lo sento. Il blu mi rasserena.
Quel giorno l’aria sarà chiara, un’aria calma e azzurra d’inizio primavera, e fiocchi lievi di panna si alzeranno a rincorrersi, vivaci, sul ritmo spensierato del chiacchiericcio delle cinciallegre.
Il cielo tornerà ad abbracciarmi benevolo, e il suo sorriso sarà dappertutto, ovunque intorno a me, farfalla.
Avrò davvero il cielo a portata di mano, allora; e mi sentirò ancora, almeno per quel giorno, grande bella e importante come un tempo.
Libera e incontenibile, come il cielo. Il mio cielo sereno, finalmente.
Un cielo blu, come me.
Tutto al di sotto delle nuvole.



lunedì 10 giugno 2013

GIALLO. Piccola Lulu


Il mio racconto di Maggio per la rubrica "Donne a colori" sul blog


Immagine tratta da

Quel giorno l’ho lasciata tra le braccia di mio padre; dormiva serena, perciò me ne sono andata a cuor leggero. Nonostante tutto il trambusto che avevo intorno, il muso lungo di papà e lo sguardo attonito di Giorgio, il nostro maggiordomo di sempre, un’espressione balorda che non gli avevo mai visto e che in quel momento non capivo.
Uscii di casa camminando all’indietro, qualcuno mi stava tirando per le spalle e io ogni tanto inciampavo nei miei stessi piedi, ma continuavo ugualmente a fare il gambero, forse lo trovavo divertente, e comunque in quel momento non sarei stata in grado di voltarmi, ché i miei occhi s’erano come incollati a quegli insoliti e vistosi bracciali che Giorgio s’era infilato intorno ai polsi, sembravano manette.
Era tutto a posto, lo sapevo. Avevo fatto il mio dovere fino in fondo.
Le avevo già dato un nome, e avere un nome era tutto, non le sarebbe servito altro; e adesso la stavo lasciando al sicuro in braccio a suo nonno, lì poteva dormire tranquilla.
«Lucrezia, papà! Si chiama Lucrezia!». Lo vidi annuire, e ne fui rassicurata.

Darle un nome. Scegliere un bel nome. Era stato questo il mio primo pensiero, la mia grande e unica preoccupazione nell’istante stesso in cui avevo saputo che lei sarebbe stata mia: l’ansia di trovarle un nome bello, degno di lei e di quello che per me sarebbe stata. Degno di me.
È questo quello che ho provato, e non gioia o tenerezza, certamente non sconforto né paura di non essere all’altezza o chissà che altro. E dopotutto credo sia stata una reazione naturale, visto che il non aver mai avuto un nome vero, un nome che mi appartenesse da subito e fosse realmente tutto mio, è sempre stata la mia grande dannazione.
Il nome di mia nonna me l’hanno appioppato per dovere, e potevano anche farne a meno, dico io, se poi mi hanno sempre chiamata col nome di mia mamma, poveretta... salvo poi pronunciarlo tutti, mio padre per primo, con quell’odiosa riluttanza triste che ero certa volesse dirmi: “Piccola cara non volermene, il suo nome te lo concedo ma rassegnati, non sei come lei né mai potrai esserlo... il confronto non regge!”
Mio padre stentava a pronunciarlo, quel nome, forse non riusciva ad abituarsi del tutto all’assenza di mia madre, così preferiva chiamarmi “piccolina” e se parlava di me con qualcuno diceva sempre e soltanto “mia figlia”. Per Giorgio ero “la signorina”, per zia Clara “la pupetta”, e per tutti gli altri, o quasi tutti, io ero semplicemente “la figlia di”; e dopotutto mi andava anche bene, se era proprio così che io stessa ero solita presentarmi: come “la figlia di”... figlia di mio padre e di una donna che non c’era più. Una donna molto bella e amata da tutti, che un giorno a causa mia era volata in cielo troppo giovane. Partorendo.
Quasi nessuno usava il mio vero nome, quello di mia nonna. E quando qualcuno mi chiamava con quel nome, il nome di mia madre, percepivo nei suoi occhi un conato di compassione che per me era una pugnalata in petto ogni volta, e allora il mio odio per lei cresceva, e io mi arrabbiavo con Dio e col mondo intero e poi anche con me stessa... per averla uccisa così, senza neppure esserne cosciente; arrivavo a pensare che avrei preferito farlo dopo, probabilmente con più motivi e maggior soddisfazione.
Pensieri malvagi, lo so, ma in fondo ero solo una bambina! Una piccola bimba indifesa, senza mamma e senza nome; che avrebbe forse voluto più affetto, e che sognava baci e carezze impossibili... e cercava vendetta alla sua impotenza sfogandosi in quelle innocenti farneticazioni.

La mia bambolina avrà un nome vero, tutto suo da subito e per sempre.
È stato questo il mio primo, anzi l’unico pensiero, il motivo l’ho già spiegato. Forse non ero molto lucida in quel momento, ricordo bene che mi ero appena fatta, la musica era troppo alta e il soffitto mi ballava addosso e le gambe mi s’intrecciavano in continuazione... ma sarebbe andata così in ogni caso, lo so, di questo sono certa.
Pensa e ripensa, quel giorno nel delirio ho scelto “Lucrezia”, che poi è diventato “piccola Lulu” che no, non è una storpiatura ma un diminutivo tenero, affettuoso: io sono la sua mamma, e quindi posso farlo.
Da quando è arrivata la mia Lulu, finalmente ho smesso di essere per tutti “la figlia di”, e sono diventata con orgoglio “la mamma di”. Il che, devo dire, è molto più gratificante.
Stringere al petto la mia bambolina, la prima volta, è stato come rinascere. La tenevo con cautela, mi sembrava talmente piccola e fragile che temevo potesse rompersi da un momento all’altro. E mentre la guardavo dormire tra le mie braccia, chissà perché, continuava a balenarmi in mente l’idea che in realtà quella che avevo in mano fosse solo una statuina di sabbia bagnata, che avrebbe conservato quella forma favolosa finché fosse rimasta umida, ma poi asciugandosi si sarebbe sgretolata a poco a poco e sarebbe scomparsa sotto i miei occhi impotenti, scivolandomi tra le dita senza che io potessi far niente per evitarlo, e prevedevo il vuoto incolmabile che avrei avuto nelle mie mani, mani che senza di lei non sarebbero mai più state così grandi e forti come in quel momento e che per sorreggermi avevano bisogno di un appiglio, e quell’appiglio era lei, e anche se poteva sembrare che io la stessi tenendo in braccio in realtà era lei, la mia ancora di salvezza. Era Lulu a tenere in vita me, e non viceversa.
La guardavo dormire serena, e per un attimo mi sentivo felice, leggera e in pace con me stessa come mai avrei creduto possibile. Ma un istante dopo, chissà come, i miei pensieri impazzivano, facendomi naufragare nella solita visione della statuina di sabbia o in mille altre allucinazioni che non voglio nemmeno ricordare, e io non riuscivo a fermarli, provavo a controllarli seguendo il ritmo del respiro lieve e regolare di Lulu, camminavo su e giù per la stanza inspirando espirando e tentando di calmarmi... poi lei si svegliava piangendo, la prendevo in braccio e la cullavo, prima dolcemente, ma lei piangeva ancora e io aumentavo il ritmo, la cullavo con più energia e la scuotevo, e lei per tutta risposta strillava sempre di più, sempre più forte, non riuscivo a farla smettere. Allora la ributtavo nella culla, sbattevo la porta. E tornavo a farlo.
Mi facevo, ancora.
Dopo essermi fatta era tutto più facile, mi mettevo a ballare col soffitto e la musica a palla, le gambe mi s’intrecciavano per un po’ e poi pian piano si scioglievano, e quando si erano sciolte del tutto la musica finiva e io me ne tornavo nell’altra stanza, stordita ma contenta, e allora ricominciavo a giocare a far la mamma.
Però quella volta il pianto non cessava, e anzi era un crescendo, arrivava a sovrastare il volume più alto dello stereo ed era davvero insostenibile, talmente forte che m’impediva di danzare. Spalancai la porta, indispettita, mi avvicinai alla culla animata da una rabbia che stentavo a trattenere, e d’istinto la presi in braccio con una furia quasi violenta.
Poi vidi il suo visino dolce, e subito mi ammansii: tutta la collera sembrava svanita; si era come dissolta, in un attimo.
La guardavo strillare e restavo lì, impietrita. Ero incantata, estasiata dalla sua straordinaria perfezione; pur se gli occhi strizzati erano ora fessure pressoché invisibili, e il suo minuscolo nasino sembrava quasi un brufoletto, così arricciato dal pianto. Era comunque talmente bella! Con la sua tutina gialla, le gote tonde e piene un po’ arrossate, i pugnetti chiusi e i piedini imbizzarriti... la strinsi al petto e ripresi a cullarla, e mentre la cullavo le mie braccia s’intrecciavano, e io non potevo scioglierle e la stringevo, la stringevo forte forte ma nonostante il mio abbraccio il pianto era sempre più straziante, soffocante, disperato.
La mia bambolina ha smesso di piangere, adesso. Qui dentro ho imparato a cullarla bene, le canto canzoncine e le massaggio il pancino quando ha le colichette. Sono diventata brava anch’io, alla fine. Ormai sono una mamma vera che ha smesso di farsi, con le buone o le cattive non importa, quel che conta è il risultato e stavolta, incredibile ma vero, ho finalmente tagliato il traguardo.
Devo ammetterlo, se ce l’ho fatta devo esser grata a Lulu, alle sue piccole manine, alle sue guanciotte rosa, alla sua boccuccia a forma di cuore, ai suoi piedini sempre irrequieti, al suo sederino liscio liscio e ai suoi grandi occhioni scuri... perché qui dentro ho amato tutto e così tanto, di lei, che un giorno finalmente i miei pensieri hanno smesso di impazzire e sfuggire al mio controllo, e io sono riuscita a chiudere per sempre con tutta quella robaccia che un tempo m’infilavo nelle vene.
Da allora mi sento una donna più vera, sana e consapevole. Completa.
E anche se in fondo al mio cuore sarò sempre, prima di tutto, semplicemente “la mamma di”... oggi tutti hanno imparato chi sono. Sanno dove vivo, come mi chiamo e quello che ho fatto. Lo sanno tutti. Non solo chi vive qui, come me, o chi mi ha conosciuto prima che vi entrassi. Ma anche chi non mi ha mai incontrata né mai mi vedrà, probabilmente, ché qui non ci è mai stato e non ci verrà mai, perché la sua vita è tutta là fuori.
Divento matta, se ci penso. Per qualche tempo ho avuto persino le prime pagine, una bella serie di servizi in TV e le interviste dei migliori giornalisti: il tutto fatto a regola d’arte, con puntuale citazione di nome cognome eccetera... quasi che ce li avessi anch’io, un nome e un cognome!
Me li hanno regalati, alla fine, grazie a Lulu; ma ancora stento a riconoscerli, e forse in fondo non credo che mi appartengano davvero.
Lucrezia avrà nove anni, domani. Alle dieci verrà papà a prendermi in auto, e insieme andremo a trovarla.
Lei e la mamma, con una bambola e un fiore.
Una rosa gialla, come ogni anno.
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mercoledì 29 maggio 2013

FIGLI RIBELLI DELL'OSCURITA' - La casa delle bambole, di IRENE ZANETTI



Il fascino di “Figli ribelli dell’oscurità – La casa delle bambole”, breve romanzo di Irene Zanetti, inizia dalla copertina tenebrosa e accattivante, e continua pagina dopo pagina fino all’epilogo, in un susseguirsi di capitoli che corrono veloci grazie a una narrazione molto scorrevole, capace di catturare l’attenzione del lettore con un ritmo naturalmente incalzante.
L’ho trovato un bel libro, molto piacevole e senza dubbio intelligente, per l’attualità e l’importanza del tema trattato. Con grande efficacia e senza mai cadere nella trappola della pedanteria, l’autrice affronta a muso duro, pur se in maniera a suo modo “leggera”, un argomento tristemente noto e urgente nella società contemporanea: quello delle insidie nascoste nell’utilizzo indiscriminato e incontrollato della tecnologia e di certi social network, specie in relazione all’impiego da parte di utenti vulnerabili e privi di difese come gli adolescenti.
Penso che Irene abbia trovato un bel modo di trasmettere un messaggio importante, smascherando le brutture dell’umanità e mettendo in guardia il lettore pur senza, bisogna dirlo, generalizzare o demonizzare il mondo; perché, alla fine, “i figli ribelli dell’oscurità credono ancora che la luce possa dissolvere le tenebre”.
Altra cosa apprezzabile, a mio parere, è la capacità dell’autrice di tenere alta la tensione emotiva senza peraltro creare nel lettore quell’ “effetto angoscia” che invece altri libri simili mi hanno trasmesso; questo è dovuto, probabilmente, allo stile semplice e immediato, che rende il romanzo adatto anche a un pubblico giovane, che sicuramente saprà gustarlo come un adulto e forse di più.
L’unico suggerimento che mi sento di dare alla brava Irene, nel caso pensasse a una futura revisione del romanzo, sarebbe quella di soffermarsi un po’ di più sull’epilogo finale, che sinceramente mi ha lasciato qualche dubbio di interpretazione.
Ma forse era proprio questo l’intento dell’autrice!?
Spiazzare il lettore, lasciando la sua curiosità vagamente insoddisfatta...

venerdì 3 maggio 2013

Ancora su "TREGUA NELL'AMBRA"


A lettura terminata, sono di nuovo qui a parlarvi di Ilaria Goffredo, una giovane scrittrice "incontrata" per caso nella rete e che voglio segnalare perchè ritengo davvero meritevole.

Mi sono avvicinata a TREGUA NELL’AMBRA spinta, più che altro, dalla curiosità per il carattere storico-documentale di questo romanzo, avendo letto parecchie recensioni positive che sottolineavano la capacità dell’autrice, soprattutto, di descrivere con efficacia il panorama italiano del periodo bellico e gli avvenimenti che in quegli anni hanno scritto la storia del nostro paese. E devo dire che non sono rimasta delusa, ma anzi ho trovato nel romanzo molto più di quanto mi aspettassi.
In primo luogo una bella storia: non solo d’amore ma anche di amicizia, consuetudini ed affetti familiari; un intreccio di fatti e personaggi molto ben caratterizzati e una vicenda sapientemente tessuta nel contesto di una narrazione semplice ma al tempo stesso curata e sempre piacevole, grazie alla bravura dell’autrice nel dosare nozioni ed emozioni.
Senza dubbio, il romanzo è una miniera di notizie e informazioni; cosa che, ad essere sincera, nella prima parte mi era sembrato andare un po’ a discapito del fascino della storia; proseguendo nella lettura, però, sono rimasta positivamente colpita notando che l’aspetto lievemente didascalico delle primissime pagine andava a poco a poco scemando, per lasciare presto il posto a una scrittura molto più disinvolta, a tratti anche poetica, pur senza mai perdere il suo carattere essenziale e scorrevole che rende la storia avvincente e crea nel lettore una buona empatia con i personaggi.
In sintesi, dunque:
Una lettura che consiglio vivamente a chiunque... senza ovviamente svelare il finale, per me del tutto inaspettato!

mercoledì 3 aprile 2013

NERO



Occhi Neri D’Ebano
il tuo sguardo è molle
Mi riga il petto, lo asciuga
graffi duri come solchi
non c’è un seme che germogli.
L’alito azzurro dei rami è breve
e onde nel grano tacciono
Spighe minute, infrante
da massi di miserie
come macina, il tempo
Ma tu lasciami i giorni
se son fragile
fior di vetro in inverno
basta un soffio a piegarmi
e temo la rugiada.

Ogni Notte Dev’Essere
scura
L’ombra lunga del lampione è un urlo
senza voce
si arrampica al cielo
E stelle cadono, a vedere me
che aspetto
la sera calma in cui spiccare il volo
libera
fra i denti radi d’un castello.
L’attesa è fiato, pane e cammino
e onde e memoria il mio treno

Occhi e naso non bastano
lo vedo
A capire la notte
l’odore del silenzio
Ma ci si abitua a tutto
com’è vero
alla cenere più che al fuoco acceso
e il buio è mite
placa il cuore e i flutti
Sull’argine di un giorno, il mio
senza orizzonte ormai
senza più tempo...
Ti ascolto.
È così vicina, qui
la luna!
.


giovedì 7 marzo 2013

ROSSO


Ogni infanzia ha i suoi colori. Colori speciali, che non si trovano altrove né possono essere fabbricati, perché composti di pigmenti magici, capaci di tingere il cuore e la memoria. Di odori, sapori, rumori.
Parlo di quelle percezioni, straordinarie e irripetibili, che il tempo inesorabile fa scivolare tra le dita come granelli di sabbia, che non riesci a trattenere, e più stringi il pugno e più loro scappano, uno dopo l’altro, quasi fossero ansiosi di raggiungere i loro fratelli dispersi che si sono lasciati andare per primi e ora giacciono a terra, un po’ ammucchiati a forma di cono e un po’ sparsi a caso sul pavimento.
E se ne stanno lì, fermi, accanto ai tuoi piedi, ma è ormai come se fossero a mille miglia da te, perché non riuscirai mai a ricomporli...
.
È il rosso, il colore che prevale nei miei ricordi d’infanzia.
C’è il rosso brillante delle mie ballerine di vernice, l’amaranto della mia mantellina in lana cotta, il bordeaux del mio primo astuccio di scuola. C’è il carminio di una scatola alta e stretta in fondo a un vicolo striminzito di un borgo di case aggrappate l’una all’altra, e tutte insieme appese al cielo sul cucuzzolo di una collina: la casa dei nonni. L’intonaco ruvido era di una tinta granata accesa come gli stimmi di un fiore di zafferano, che la faceva spiccare fra le altre costruzioni, più larghe e basse, tutte dai colori tenui, diversi toni di rosa e giallo. E ancora, c’è il rubino del vino di zio Piero, di cui a Natale anche a noi bambini era concesso bere qualche sorso per esaltare il sapore delle frittelle della nonna: le panelle di mele e vin santo, che ancor oggi ricordo come la più grande delizia del palato e che per le feste non potevano mai mancare.
Della casa dei nonni amavo gli aromi. Il sentore di vaniglia che pervadeva ogni stanza per l’abitudine della nonna di profumarsi con quell’essenza zuccherina, e l’odore dolceamaro del tabacco, che un tempo il nonno fumava nella pipa e di cui conservava ancora qualche presa, da annusare per ravvivare i ricordi prima di raccontare a noi nipoti le avventure di quando navigava.

ROSSO.
Mentre cucino mi verso un bicchiere di vino, per allietare un po’ il mio pranzo solitario. Lo faccio sempre. Ma oggi il mio rosso è più scuro e limpido del solito, e odora di vaniglia tabacco e panelle. Allora mi torna in mente un Natale, fra i tanti trascorsi a casa dei nonni.
Eravamo in cucina, la nonna e io, gli altri a giocare a tombola accanto al camino. La nonna friggeva le panelle e io la osservavo estasiata, così bella pur con le sue rughe, la schiena curva, il profilo indurito dagli anni.
Fuori infuriava un putiferio di sibili, cocci che cadevano, imposte che sbattevano, cartacce come aeroplani, ulivi a sbracciarsi impazziti su un cielo torvo e minaccioso. In cucina, accanto alla finestra, un mulinello di foglie tenere venute da chissà dove volteggiava con grazia su un turbine invisibile. Certamente il movimento era creato da una corrente clandestina penetrata attraverso gli infissi; ma io, in preda al mio infantile entusiasmo, pensai che le foglie si stessero muovendo in una danza magica, sull’onda malinconica dei vapori effusi dal vin santo aggiunto alla pastella: melodia che le mie orecchie immaginarono di udire davvero.

ROSSO.
Questa sera è bastato un tramonto per farmi travolgere dai ricordi.
Mi aggrappo alla memoria, spiego le ali, e col sapore di vino e panelle ben stretto tra le labbra, decollo. Virando in volo catturo un alito di brezza, il palpito di un suono. Quassù è più dolce, il rosso del cielo.
«Sono a casa, nonna» sussurro piano al mio cuore mentre plano.
La casa è una scatola rossa, più stretta e bassa di un tempo. C’è il cartello “VENDESI” a destra del portone, accanto a una targhetta senza nome. Il  granata che ricordo è ormai sbiadito, e dov’è scrostato, l’intonaco tradisce un rosa pallido. Non serve bussare, in un attimo sono dentro ad avvitarmi sulla spirale delle scale, e odori colori e sapori riaffiorano, s’incollano al cuore, mi porgono ricordi che credevo di aver perduto. Li respiro.
Nell’aria ferma, una voce sottile di vento sbuffa e mi sfiora, un mulinello di foglie brune s’invola e volteggia al ritmo di una melodia nostalgica, e io mi sento così leggera che inizio a danzare, danzo con loro. Sul profumo di fiori frittelle e vin santo, fra il bianco il grigio il rosa dei marmi, il bruciato della terra, l’oro delle iscrizioni e il baluginare dei lumini.
Solo due passi al marmo rosso, l’unico. Quello col mio nome in caratteri di bronzo, una foto di me invecchiata e due date, una che non riconosco.
L’istinto grida VIA, VIA DA QUEL PENSIERO, e io subito fuggo, corro a cercare il blu limpido e sereno delle mie notti di bambina. Ma niente, quel blu non esiste. Non qui. Non adesso.
Il sole morente è di un cremisi intenso, s’adagia sul cobalto del cielo e lo snatura... né rosso né blu: viola.
Sorrido.
È qui la mia casa. All’ombra di un fiore.
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venerdì 1 marzo 2013

TREGUA NELL'AMBRA, un romanzo di Ilaria Goffredo


Oggi, 01 marzo 2013, prende ufficialmente il via la sfida di Ilaria Goffredo, una giovanissima e feconda scrittrice che, alla sua sesta pubblicazione in soli due anni (i romanzi sono 4, ma uno è suddiviso in tre libri), ha voluto cimentarsi in un romanzo storico sull'Italia della seconda guerra, e a quanto pare l'ha fatto con un certo successo, se si considera che la sua opera si è piazzata tra i finalisti del concorso letterario nazionale "Ilmioesordio, Edizione 2012"... e anche a giudicare dall'entusiasmo dei lettori che l'hanno recensita!

Quale sfida?
Tentare di conquistare il grande pubblico,  di raggiungere un gran numero di lettori anche senza l'appoggio e la promozione di un grande editore.
Per riuscire nel suo scopo, Ilaria ha deciso di rendere il suo romanzo disponibile in formato ebook totalmente gratuito:
"E' la mia piccola protesta contro una realtà editoriale sbagliata; un modo per far conoscere i miei personaggi e ciò che hanno da dire; un modo per attirare l'attenzione sul mondo degli scrittori ignoti". 

Il titolo del romanzo è "TREGUA NELL'AMBRA".

Di cosa parla:
Del coraggio di una ragazza che diventa donna. Della tenacia di un amore in bilico sull'abisso. E' Il ritratto di un'Italia che non c'è più, la coscienza di ciò che siamo nel flusso della grande Storia.
In un romanzo che ha il sapore di sole e calce, terra e pane nero, la vita rincorre e sfida gli orrori della dittatura e dei campi di concentramento, spera nella attività antifasciste e incassa le perdite.

La trama:
Martina Franca, Puglia, gennaio 1943.
L'Italia è entrata in guerra da tre anni e la vita della popolazione peggiora di giorno in giorno. Gli stenti gravano anche sull'esistenza della giovane Elisa, una diciottenne piegata dal terrore del fascismo e dei bombardamenti alleati, dalla fame. Un giorno Elisa conosce Alec, il figlio di una vicina di casa, un uomo misterioso e dallo strano accento che suscita in lei un'adorazione che a volte si tramuta in timore...

Sembra promettente, vero?
E allora, che dire? Io comincio col fare a Ilaria un grandissimo "IN BOCCA AL LUPO"...
e poi vado subito a scaricare il suo romanzo!

Ecco il link:
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 Qualche informazione sull'autrice:
Ilaria Goffredo è nata nel 1987 e vive in Puglia. Ha viaggiato in tutta Europa e ha lavorato in agenzie di viaggi e grandi villaggi turistici. Nel 2005 ha lavorato come volontaria in una scuola professionale di Malindi, in Kenya, e lì si è innamorata di quella terra meravigliosa e della sua gente straordinaria. Ad ottobre 2010 si è laureata in Scienze della Formazione.
Cura una rubrica di recensioni letterarie sul blog di Itoidei, è stata giurata ufficiale del concorso "Casa Sanremo Writers Edizione 2013". Ha vinto diversi premi letterari per racconti e diari di viaggio.
Ha pubblicato: "Amore e guerra", "Il cavaliere d'Africa", "Un regalo per Kaninu"(tutti con 0111, nel 2012); "Il cavaliere d'Africa - Libro secondo, Libro terzo" con Lulu, sempre nel 2012); "Tregua nell'ambra" (in seconda edizione nel 2013).
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A tutti auguro una buona lettura!
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mercoledì 27 febbraio 2013

BIANCO. Una margherita.






di Sabrina Calzia

Racconto di fantasia liberamente tratto dalla novella di Luigi Pirandello “Di sera, un geranio”,
scritto ricordando Rita Levi Montalcini.
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S’è liberata, nel sonno, non sa come; forse come quando s’affonda nell’acqua, che s’ha la sensazione che poi il corpo tornerà su da sé, e invece risale solamente la sensazione, ombra galleggiante del corpo rimasto giù.
Dormiva, e non è più nel suo corpo; non può dire d’essersi svegliata, e non saprebbe dire dove ora si trovi veramente: è come sospesa a galla nell’aria immobile della sua camera chiusa. Alienata dai sensi, distingue e riconosce il ricordo di com’erano, più che le rispettive percezioni; non sono ancora lontani, i suoi sensi, ma già li intuisce staccati, altrove da sé: là dov’è un rumore anche minimo nella notte, ecco l’udito, che pure in molta parte l’aveva abbandonata; e qua la vista, tornata come in un miracolo, tutta quanta, dov’è appena un barlume a rischiarar le pareti e il soffitto polveroso, e giù il pavimento col tappeto, e le pieghe morbide di un letto col piumino rosa, e le lenzuola bianche di raso sotto le quali s’indovina un corpo che giace inerte. Un corpo minuto, la testa piccola affondata sui guanciali scomposti, gli occhi chiusi e la bocca piegata in un sorriso dolce, lieve.
Lei, quella! Una che non è più. Una a cui quel corpo pesava già tanto, e che ormai con quel corpo vedeva così poco e sentiva ancor meno, e che fatica anche il respiro! Una che adesso però s’è liberata, e prova per quel suo corpo là, più che antipatia, rancore. Veramente non vide mai, lei che pure vedeva e comprendeva quasi tutto, la ragione per cui gli altri dovessero riconoscere quell’immagine così insignificante come la cosa più sua. Non era vero. Non è vero. Lei non era quel suo corpo; c’era anzi così poco di lei, in quel misero involucro! Lei era nella vita, nelle cose che pensava, che le si agitavano dentro, in tutto ciò che vedeva fuori, attorno a sé, senza mai guardare se stessa. Case strade cielo, tutto il mondo. E allora che facesse pure, quel suo povero corpo avvizzito... facesse pure ciò che più voleva. Poteva anche cedere al tempo, lui, che ormai si portava in spalla più di cento primavere: lei avrebbe continuato comunque, come sempre, a essere e sentirsi soltanto mente, intelligenza, intuizione. Puro pensiero inestinguibile, un intero battaglione di neuroni bellicosi e instancabili, forse anche immortali. Già, ma ora, senza più il corpo, prova un dolore nuovo, lei che di nulla s’è mai data pena, non per se stessa, almeno: questo sgomento del suo disgregarsi e diffondersi in ogni cosa, le cose a cui per tenersi sveglia torna ad aggrapparsi ma dalle quali, in questo stesso gesto, trae un timore sconosciuto. La paura non d’addormentarsi, ma del suo svanire nella cosa che resta là per sé, senza più lei: semplice oggetto. Una sveglia sul comodino, un quadretto alla parete, un paio di vecchie stampelle, un cimelio di microscopio ormai inutile sul tavolo in mezzo alla stanza. Lei ora è quelle cose, non più com’erano quando avevano ancora un senso per lei; quelle cose che per se stesse non hanno alcun senso, e che ora dunque non sono più niente per lei. Forse questo, è morire?

La casa di suo padre. Eccola ancora lì, ampia e maestosa, con una luna grande e tonda a illuminarla tutta, e a inondare di luce anche il suo bel giardino. In quella luce bianca, ora, lei riesce a scorgere le giovani gemelle, due fiori fragili in attesa di sbocciare, e scorgendole intuisce un ritorno di voce lontana, fragranza di risa aperte, graziose e spensierate.
Eccola lì, Paoletta; timida e solitaria, lei, così affettuosa e dolce, aggraziata nei modi e spontaneamente docile. Osserva la piccola Paola, la sente rivivere; e in quell’eco d’infanzia le sovviene il calore di un affetto immenso, mai mutato, che più che a ogni altro, in vita, la legò alla sorella. E ne rammenta il sorriso più recente, quello di donna adulta, più breve di allora ma al tempo stesso più maturo e consapevole. Ripensa alle sue labbra rosee e piene, alla gioia sincera che ne incurvava un pochino gli angoli, all’insù, durante quei colloqui interminabili con tele troppo candide e impazienti di sporcarsi, nei voli fantastici dei suoi pennelli unti e odorosi, impugnati a mo’ di spada per pungolare o trafiggere il tempio segreto e inviolabile dell’arte. Un tempio che Paola conosceva bene e sapeva plasmare con sapienza, in un modo tutto suo; inseguendo geometrie perfette, al tempo stesso morbide e forti, in grado di affrontare il caos burrascoso di un mare perennemente inquieto: la sua vivida e fervida ispirazione. Senza mai tradire un indugio, né abbandonarsi a un naufragio.
Poi accanto alla giovane Paola ritrova se stessa, animo indomabile e naturalmente scompigliato, bambina dall’indole vivace e ribelle, sempre un po’ crucciata e precocemente rapita da pensieri troppo gravi e profondi. Lei, Rita; la bimba che non volle e non seppe mai piangere, nemmeno a tre anni, eppure a quell’età fu già capace di offendersi irrimediabilmente col padre, in un giorno d’inverno in cui Torino, bianca di neve, era avvolta in un panno omertoso di silenzio. Non lo avrebbe perdonato, mai fino in fondo, quel genitore troppo severo e troppo ottuso, reo di averla privata del suo amatissimo, pur frivolo, cappellino bianco di feltro. Lei, Rita; la bimba orgogliosa e determinata che frequentava ancora le elementari quando decise che mai, in futuro, si sarebbe concessa la distrazione di creare una famiglia nuova, tutta sua, per non sottrarre tempo ed energia alla missione cui si era già votata: l’abbattimento dei pregiudizi che incatenavano le donne tarpando le ali alla creatività e all’intelligenza femminili. Non si sarebbe legata mai a nessuno, lei ch’era soprattutto libertà e fantasia, intuito e immaginazione. Lei che da sognatrice qual era, con gesti concreti e tangibili avrebbe mostrato al padre tutto il suo talento, diventando la sola, prima e inimitabile “Artista della Scienza”. Lei che avrebbe dimostrato al mondo intero che il suo essere artista e scienziata, e il suo essere donna in primo luogo, non le avrebbe mai posto un limite, ma al contrario le avrebbe offerto sempre il più ampio e sconfinato degli orizzonti.
E mentre rivede se stessa eccola, infine, arriva la sorpresa, e diventa a mano a mano più grande, e si fa infinita... ecco, l’illusione dei sensi, già sparsi, che a poco a poco si svuota di cose che pareva ci fossero e invece non ci sono: suoni, odori, colori. L’inganno si svela. E svelandosi finisce. Tutto ora è freddo e grigio e muto. Anche il cervello si è spento. Tutto è niente. E la morte... è questo niente, della vita com’era? Eppure anche in questo nulla fatto solo di silenzio, ancora il pensiero non vuol saperne di tacere, e invece di sbiadire e sfumare si riaccende in un fiato, e pian piano si gonfia, si stacca dagli oggetti e decolla, si libra in volo, diventa aria e cielo, ora rovente frizzante etereo come un fulmine ora freddo lento materico come neve. E che importa, allora, il consistere ancora in una cosa, se le cose sono niente o quasi, e il pensiero è tutto e in tutto, o quasi in tutto? Ché il pensiero è sempre stato tutto, di lei; e questo suo tutto non era solo cervello, ma anche cuore. Ed è proprio lì, nella magia ancora incomprensibile del cuore, che il pensiero può mutare, e magari trasformarsi in fiore, un piccolo fiore bianco che occhieggi timido da uno stelo fragile, minuto, quasi invisibile nel buio della notte.
- Oh guarda giù, nel giardino: quella margherita, bianca. Come s’accende! Perché?
Di sera, qualche volta, nei giardini s’accende così, improvvisamente, qualche fiore; e nessuno sa spiegarsene la ragione.
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martedì 5 febbraio 2013

DONNE A COLORI, la mia rubrica sul blog "Cernuscodonna"


Immagine da fiorilandia.blogspot.com

Donne, memoria, colore: questi gli ingredienti principali.
Per spiegare di cosa si tratta, vi racconto chi sono.

In fondo al mio cuore c’è il sole limpido della Liguria e il vento tiepido e salmastro che soffia tra i suoi ulivi. Eppure ho lasciato quelle terre da oltre vent’anni, e da quasi un decennio mi sono felicemente “trapiantata” a Cernusco sul Naviglio. Mi piace molto questa città, amo la quotidianità mai banale che a Cernusco vivo con mio marito e i miei due bambini; apprezzo la poesia del suo naviglio, l’ariosità dei suoi parchi e il ritmo a misura d’uomo che si respira nelle sue corti e nelle strade.

Per il resto... mi affascina scoprire e collezionare la magia e la ricchezza che si nascondono tra le pagine di un buon libro, leggo appena posso; ma ciò che mi appassiona più di tutto è scrivere. Così nei ritagli di tempo scrivo, principalmente di emozioni, e un tema a me molto caro è quello della memoria e delle origini, dei fili che in modo più o meno stretto legano ognuno di noi al passato, sia esso personale o collettivo; delle sensazioni che il ricordo risveglia e fa rivivere, e di come queste sensazioni influiscano, più o meno consapevolmente, sul modo che abbiamo di porci nei confronti della vita di ogni giorno.

Per queste ragioni, quando mi è stata offerta l’opportunità di curare nel blog “Cernuscodonna”  una rubrica tutta mia, ho pensato di provare a condividere con i lettori la mia passione per la scrittura di tipo intimistico proponendo alcuni miei brani di narrativa (o poesia) che ho scritto o scriverò prendendo spunto dalla MEMORIA, e rivolgendo la mia attenzione al mondo e al modo di sentire FEMMINILE (seguendo lo spirito del blog) e alle EMOZIONI.

In questa mia avventura, mi propongo di far riferimento di volta in volta a un particolare COLORE, partendo dal presupposto che il colore, in se stesso, è fonte di emozione.

Come brano di apertura della rubrica ho scelto “BIANCO: Una Margherita”, racconto di fantasia pensato in occasione della recente scomparsa di Rita Levi Montalcini, e scritto partendo dalla novella di Luigi Pirandello “Di Sera, un geranio”.


Buona lettura!