La vita è il mio viaggio. L'amore ne è meta, bagaglio, percorso.



PoesieRacconti

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sabato 27 marzo 2010

Gabriel Garcìa Màrquez


1928 - vivente
Premio Nobel per la letteratura (1982)

Era inevitabile: l’odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati.

Si apre così, la storia dell’amore impossibile tra Florentino Ariza e Fermina Daza: col dottor Juvenal Urbino alle prese con un suicidio d’amore consumato col cianuro;

e si conclude mezzo secolo dopo con un viaggio, interminabile, su un battello in quarantena:

Il capitano guardò Fermina Daza e vide sulle sue ciglia i primi fulgori di una brina invernale. Poi guardò Florentino Ariza, la sua padronanza invincibile, il suo amore impavido, e lo turbò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti.
"E fino a quando crede che possiamo continuare con questo andirivieni del cazzo?" gli domandò.
Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatre anni sette mesi e undici giorni, notti comprese.
"Per tutta la vita" disse.
.
Penso di poter affermare, senza esagerare, che L’amore ai tempi del colera sia un vero e proprio capolavoro.
Un romanzo perfetto, oserei dire, uno dei libri che più ho amato e senza dubbio il mio preferito, tra le opere che ho letto di Garcìa Màrquez.
Forse, tra le mie letture, anche quella che in assoluto mi ha più segnata.
Romanzo antiromantico delicatamente arguto, graziosamente ironi-comico, dolcemente tragico... assolutamente da leggere, per scoprire o riscoprire l’amore in tutte le sue forme, ad ogni età.
.
E, come accade per (quasi) tutti i capolavori letterari (e non solo!), ovviamente dal libro doveva nascere un film.
Sinceramente non l'ho visto, e non so ancora se mai mi azzarderò a farlo. Rischierei forse di "contaminare" l'idea che mi sono fatta dei personaggi, snaturando o perdendo per sempre i miei ricordi, le sensazioni...


Ricordando questa magnifica opera di Màrquez, vorrei oggi proporvi un brano molto bello e profondo, noto come "Testamento spirituale" e attribuito allo scrittore colombiano.
Semplicemente... poetico.

Se per un istante Dio dimenticasse che sono una marionetta di stoffa e mi regalasse un poco di vita, probabilmente non direi tutto quello che penso, però in definitiva penserei tutto quello che dico.
Darei valore alle cose, non per quello che valgono, ma per quello che significano.
Dormirei poco, sognerei di più, capirei che per ogni minuto che chiudiamo gli occhi, perdiamo sessanta secondi di luce.
Andrei avanti quando gli altri si fermano, mi sveglierei quando gli altri dormono.
Ascolterei quando gli altri parlano, e come gusterei un buon gelato al cioccolato!
Se Dio mi regalasse un poco di vita, vestirei in modo semplice, mi butterei a terra al sole, lasciando allo scoperto, non soltanto il mio corpo ma anche la mia anima.
Mio Dio, se io avessi un cuore, scriverei il mio odio sul ghiaccio, e aspetterei che uscisse il sole.
Dipingerei con un sogno di Van Gogh sulle stelle un poema di Benedetti, e una canzone di Serrat sarebbe la serenata che offrirei alla luna.
Innaffierei con le mie lacrime le rose per sentire il dolore delle loro spine, e l’incarnato bacio dei suoi petali...
Mio Dio, se io avessi un poco di vita...
Non lascerei passare un solo giorno senza dire alle persone che le amo, che gli voglio bene.
Convincerei ogni donna o uomo che sono i miei preferiti e vivrei innamorato dell’amore.
Agli uomini proverei quanto si sbagliano quando pensano che smettono di innamorarsi quando invecchiano, senza sapere che invecchiano quando smettono di innamorarsi!
A un bambino gli darei le ali, però lascerei che da solo imparasse a volare.
Ai vecchi insegnerei che la morte non arriva con la vecchiaia ma con la dimenticanza.
Tante cose ho imparato da voi, gli uomini...
Ho imparato che tutto il mondo vuole vivere nella cima della montagna, senza sapere che la vera felicità sta nel modo di salire la scarpata.
Ho imparato che quando un bambino appena nato stringe con il suo piccolo pugno, per la prima volta, il dito di suo padre, lo mantiene intrappolato per sempre.
Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare un altro dall’alto, solo quando lo aiuta ad alzarsi.
Sono tante le cose che ho potuto imparare da voi, però realmente a molto non serviranno, perché quando mi metteranno dentro quella valigia, infelicemente starò morendo.
.


martedì 23 marzo 2010

A primavera


La Primavera è, per antonomasia, molto più di una semplice stagione.
Simbolo di giovinezza, spontaneità, freschezza.
Del fiorire e rifiorire di emozioni.
Del nascere e rinascere di sensualità, fragranze, dolcezze.
Del risveglio della natura, col suo trionfo di colori, profumi, e non solo...
Come la Primavera di questi versi, che risalgono alla mia adolescenza.

Nell’aria dipinta dal gelo
tra steli di nebbia e rugiada
sussurra una voce velata
nel magico bianco mistero.

Coprendosi pudica ascolta
la terra nel candido manto,
la bacia il calore del giorno
se l’alba ne annuncia il ritorno.

Non primule libere al sole,
ché il vento le punge e imprigiona
ma un giorno, gioiose, verranno...

nel vento caldo

la sua violenza

le sue carezze.
.

lunedì 22 marzo 2010

Alda Merini



Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.

Il 21 marzo del 1931 nasceva a Milano la "poetessa dei Navigli" Alda Merini, scomparsa nel 2009. In occasione della ricorrenza della sua nascita, a lei e alla sua "straordinaria follia" vorrei dedicare il mio pensiero. Un piccolo, umile omaggio ad una donna da ricordare, oltre che per i suoi versi, anche per la sua grande audacia, originalità, irriverenza.


Ho conosciuto in te le meraviglie

meraviglie d'amore sì scoperte

che parevano a me delle conchiglie

ove odoravo il mare e le deserte

spiagge corrive e lì dentro l'amore

mi son persa come alla bufera

sempre tenendo fermo questo cuore

che (ben sapevo) amava una chimera.

...

sabato 20 marzo 2010

Il mio libro recensito su...

Grazie al forum di Scrittori d'Italia e al contest "La Trinità",
ora "La metà di credere" è recensito anche su Fragmenta
(rerum vulgarium emagazine)

... accanto a titoli e autori di tutto rispetto!!


giovedì 18 marzo 2010

Primo posto nel 2° contest de "La trinità"!


WOW, che bellissima emozione!!
Oggi ho saputo di essere la vincitrice del 2° contest "La Trinità", organizzato dal forum di Scrittori d'Italia http://scrittoriditalia.forumfree.it/ scaduto ieri pomeriggio.
Questo significa che:
- il mio "La metà di credere" sarà posizionato in cima alla TagBoard del forum;
- cliccando sulla copertina del libro ci sarà il link diretto ad IBS.it o a una mia pagina personale (questo blog, suppongo);
- sarò recensita dal sito http://www.fragmenta.it/ (sito enciclopedico di libri, film e canzoni);
- fino al termine del prossimo contest de "La Trinità" avrò uno spazio laterale nel blog Imho Blurp!;
- entrerò a far parte del gruppo "And the winner is..."
E tutto questo non è poco, perciò...
UN GRAZIE, DAL CUORE, A TUTTI QUELLI CHE MI HANNO VOTATA!
E ora, per voi che vi siete imbattuti in questo mio piccolo spazio nella rete, mi sembra doveroso riportare l'estratto con il quale ho partecipato... un assaggino del mio libro e delle vicende di Perseo. Buona lettura!
...

L’una del pomeriggio.

Non si vede nessuno, a quest’ora.
I bambini riposano, dopo il pranzo; gli insegnanti sono in pausa, gli inservienti a rigovernare.
Solo i miei passi. Che calpestano le fughe, dritte e grigie, distese tra i marmi. I miei passi che rimbalzano, riecheggiano; e scalfiscono, lampi sonori, quest’ombra satura di vernice.
Una fila di finestre, a sinistra; affacciate sul giardino, quello della quiete. Le imposte chiuse, forse per il caldo.
Una fila di porte, a destra: tre aule, la direzione, l’infermeria. E oscurità, che sgattaiola da quelle stanze.
Poi qualche spada di luce, là in fondo; a destra oltre le aule, la direzione, l’infermeria. Che da una porta schiusa si allunga a ferire, silenziosa, la penombra ovattata del corridoio vuoto. La raggiungo.
Quattro gradini a scendere, al giardino dei giochi, e alla luce. Mi fermo sull’uscio, a farmi ancora avvolgere dall’abbraccio piacevole del tunnel semioscuro.
Apro la porta, a metà. È accecante, la calura del giardino.
Mi sporgo un poco, ma cauto; aggrappato alla maniglia, come a un appiglio salvifico sull’orlo di un precipizio.

Niente è cambiato, qui.
Soltanto un po’ più grande, la magnolia. Stesse foglie arrugginite, tirate a lucido; rilucenti, nelle onde timide della canicola. Soltanto un po’ più piccolo, il giardino. Stessi colori, stessi odori, stessi suoni.
...
Un canto in crescendo, un coro. Di bambini. Che cantano e ridono, e saltano; battono le manine. Guariti, forse. Che bello.

Non ci sono.
... ma io li sento...
Ora riposano, i bambini.

Non ci sono, a quest’ora.
... ma io li vedo...
Non qui in giardino.

Eccoli.
Tutti in cerchio, una bimba in centro. Con la benda sugli occhi, annodata dietro, tra i suoi codini color rame. Tutte in cerchio, piccole testoline; una su e una giù, come merletti sulla torre di un castello. Tutti uguali, soldatini e bamboline; divisa blu. Camicia bianca e calzoncini, gonna le bambine. Una testa su una testa giù, una bionda una castana. Quella in centro, rossa. Si tengono per mano e girano, girano in tondo; girano e cantano. La bambina immobile, al centro. Le braccia lungo i fianchi, un po’ sollevate, come un cavatappi avvitato a metà nel sughero di una bottiglia di spumante.

Non ci sono.
Ma li sento, li vedo.
Forse è il caldo.
Che inganna occhi, orecchi e mente. Che svuota i polmoni, sanguigni. Che fa sudare la memoria, sanguinante.
Che mi divora l’aria, non respiro.

C’è un bambino in disparte, accanto alla magnolia
. Accovacciato. Sta guardando qualcosa, lì in terra.
Si inginocchia, siede sui talloni. Con le mani, esplora tra le zolle.
Abbandono il mio appiglio, sulla porta. Anche se non respiro, e la mia testa gira, e l’aria ondeggia. Trasparente, nella canicola.
Fitta alla gamba, la destra. Quel dolore, il solito.

Scendo cauto, i quattro gradini. Niente più ombra; ormai sono nell’afa, accecante, del giardino.
Cammino veloce verso il bambin
o, mi chino.
Cosa sta facendo.
Davanti a lui un minuscolo vulcano di terra smossa, una fila sbisciolante di operose formichine; e un mucchietto di semi, lì vicino.
Ecco cosa fa, aiuta le formich
e.
Vorrei parlargli, dirgli che anch’io facevo quel gioco, da bambino. Che con Priscilla le aiutavo sempre, le formichine; ammonticchiando semi accanto al formicaio.
Ma lui non si volta, continua il suo lavoro come non ci fossi. Ed io non oso disturbarlo, e non so come chiamarlo.
Come si chiama.
Lui non mi guarda, o non mi vede.

...
Sento uno sguardo e sollevo la schiena, mi guardo intorno.
Niente più coro, niente più bambini in tondo, niente bambina in centro.

Solo una bambola. A terra, seduta. Sorretta sulla schiena dal tronco scuro della magnolia.
Una bambola bionda di porcellana, con grandi occhi verdi di vetro e una palpebra abbassata a metà; un bel vestitino a fiori, le scarpine lucide, il cappellino con la tesa orlata di pizzo.
«Signore... signore!» una voce di donna, strillante, dall’orlo del precipizio. Mi volto.
Viene verso di me, con piglio deciso e l’aria seccata. I pugni serrati, minacciosa.
«Cosa sta cercando, qui?»
Stendo il braccio, il destro. In direzione della magnolia.
«... il bambino... » sussurro, a fatica.
«Quale bambino?»
Mi volto, con gli occhi cerco il bambino delle formiche. Niente.
Abbasso lo sguardo, cerco il formicaio e la fila di formiche. Niente.
Alzo lo sguardo, verso la bambola. Mi sorride.

Mi volto verso la donna.
È più alta di me, più giovane, aggraziata. Ma sembra irritata.
«Quale bambino, scusi... chi sta cercando? Non è orario di visita, chi l’ha fatta entrare?»
«Quel ciccione sudaticcio, ottuso e beota di portiere in letargo... con quell’idiota di guardiano imbambolato... » vorrei rispondere.
«... sono entrato... la portineria... » biascico invece, a denti stretti. E le porgo con diligenza il cartellino plastificato con la scritta “visitatore”, che ho messo in tasca prima di entrare.
Lei lo guarda. Poi mi guarda, lasciando fiorire un mezzo sorriso sulle sue labbra graziose.
Sembra più distesa, sembra aver capito.
«Non è orario di visita, adesso; deve aspettare le sedici, purtroppo... venga dentro, qua fa caldo...» si volta e procede, a passo svelto, verso i gradini.
Io invece resto lì, accanto alla magnolia.
Non riesco a muovermi, non respiro. Resto lì paralizzato, all’ombra dell’albero. Senza il bambino, senza i bambini.
Ma dove sono.
Li cerco ancora, con lo sguardo, ma niente.
Mi volto, è sparita anche la bambola.
E ormai non c’è più aria,
continuo a non respirare.
La donna intanto ha salito i gradini e mi guarda, con la mano appoggiata alla porta. Mi fa cenno di raggiungerla.
Provo a respirare e ce la faccio, mi muovo, cammino verso di lei. Come picchia, questo sole. Almeno venti passi, ai gradini. Come vent’anni, per me. Ma ce la faccio, la raggiungo.
«Si sente bene?»
Tento di sorridere. Annuisco.
Chiude la porta, alle nostre spalle.
Buio.
Allunga una mano.
Luce.
Cammina veloce verso la parete opposta. Si appoggia al davanzale, sporgendosi un poco. Apre leggermente una delle imposte, verso il giardino della quiete.
Viene verso di me, quasi mi sfiora. Spegne la luce.
Penombra.
«Chi è venuto a trovare?»
Bella domanda, non ho una risposta.
Si aspetta un nome, il nome di un bambino. Invece no, non cerco un bambino. Cerco Priscilla, che è scomparsa e certamente non è qua. Non può essere qua, lo so. Non sono preparato, a questa domanda, non so che dire. Ma cosa pensavo, venendo qua. Cosa speravo mi dicessero. Devo pur chiedere, qualcosa. Devo sapere.
Intanto la donna aspetta, e mi guarda.
Silenzio.
«Allora... chi cerca? » sembra nuovamente spazientita.
«Cercavo... cerco Priscilla, l’insegnante... »
Ecco, l’ho detto. Adesso sentiamo, cosa risponde. Sentiamo qual è, la scusa ufficiale.
«Priscilla... » ripete.
«Priscilla.»
Ecco, io l’ho detto. E ora mi dirà «…ma come, non ha saputo... l’incidente... »; oppure «... si è trasferita, non so dove lavori, adesso...»
La guardo, così graziosa e gentile. Mentre lei, gli occhi bassi, rovista con la solita grinta nei cassetti della sua mente.
«Priscilla... e di cognome?»
«... dell’Olmo... Lavo... lavora qua... »
Ecco, giusto “lavora”, non... “lavorava”. Non devo saperlo, che non è qua. Altrimenti perché, dovrei cercarla. Sì... “lavora” e non...“lavorava”.
«Dev’esserci un errore, sa? Questa signora... Priscilla... non lavora con noi.»
«Ma certo, insegna in questo Istituto... » insisto.
Devo insistere. Devo sembrare convinto.
«Le ripeto di no, signore. La sua amica non lavora, qua con noi» e si volta, seccata.
Si dirige a passi svelti verso la scrivania, in fondo al corridoio. Io la seguo, devo insistere.
«... ma sono già venuto, a trovarla... » la mia voce però non è ferma come vorrei, e sento quella fitta al ginocchio, il destro, e respiro a fatica.
«Non ha mai lavorato in questa Scuola, signore... » mentre finge di riordinare la scrivania, incurante del mio ansimare.
«... almeno, non negli ultimi dodici anni... io lavoro qua da dodici anni... lei quando è venuto, l’altra volta ?»
Quando? Non lo so, quando...
«L’anno scorso... in primavera...» ma la mia voce vacilla, ed io ancora non respiro, e mi affanno.
«Per favore... non ho tempo da perdere... » ora è proprio irritata. Mi indica l’uscita, con un cenno della mano.
«... non so perché lei sia qui, ma questa storia non mi piace. La prego di andarsene. Subito.»
«Le dico che lavora... posso parlare con il Direttore?»
«Il Direttore non è in sede, oggi. Deve chiamare dopo ferragosto... » e il suo tono è severo, adesso.
Si china sulla scrivania e scrive un nome, a matita; su un biglietto da visita con l’indirizzo della scuola. Me lo porge.
«... chiami questo numero, e chieda un appuntamento. E ora vada, per favore... non mi costringa a chiamare la sicurezza.»
«Quale sicurezza, cara? Ti riferisci a quel bell’imbusto con la divisa impeccabile e la testolina bacata di un tacchino imbalsamato? O a quel grassone del suo amico, salciccioso e unto, che si rotola nel sonno russando come un trombone?» vorrei risponderle.
«... mi scusi tanto, del disturbo. Chiamerò dopo ferragosto... senz’altro... » le rispondo, invece.
Poi mi volto, sconfitto. E mi affretto verso l’uscita. Un po’ zoppicando, e respirando a fatica.
Chiudo gli occhi, vorrei scappare, vorrei sparire.
Ho fatto la figura del cretino, o del pazzo, o anche peggio.
Mi fermo davanti alla porta, prima di uscire.
Mi volto e la guardo, sforzandomi di sorridere. Nonostante la figuraccia, e nonostante la sconfitta.
Vorrei sembrarle gentile.
«... mi scusi... »

sabato 13 marzo 2010

Dove trovare il mio libro


Potete trovare il mio libro presso:

LIBRERIA L'ARCADE
Piazza Matteotti, 13 – Cernusco sul Naviglio (MI)

LIBRERIA EQUILIBRI
Via Rodolfo Farneti, 11 – Milano

LIBRERIA DANTE
Via della Repubblica, 6 – Imperia

Inoltre:
Reperibile su richiesta (entro 7/10 giorni) in tutte le librerie italiane, oppure acquistabile su
www.ilgiralibro.com http://www.ilclubdeilettori.com/risultati.aspx?keywords=sabrina+calzia
www.ibs.it http://www.ibs.it/ser/serfat.asp?site=libri&xy=sabrina+calzia
e nelle migliori librerie online

Buona lettura!

Versi da "Ossi di seppia", Eugenio Montale


Forse un mattino andando in un'aria di vetro
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.


Nulla è più grande della rivelazione. Della scoperta di una verità altra, che si cela oltre la muraglia ottusa e ingannevole del mondo empirico sotto i nostri occhi.
Verità che per Montale, nei suoi Ossi di seppia, si rivela nell'esperienza dell'irrealtà del mondo.
E' una verità sofferta, come una vertigine spaventosa, ma al tempo stesso accolta come una conquista, un vero e proprio miracolo. Un segreto da custodire gelosamente, raro e prezioso privilegio, per proseguire in silenzio il proprio cammino; in mezzo all'indifferenza e alla superficialità dei tanti. Che colgono solo l'inganno, ma non lo sanno e perciò non si voltano... a scoprire la vera essenza di ciò che, lungi dall'essere reale, semplicemente appare, ai più, come tale.
Stupenda.